Nella mia famiglia nessuno andava in bici e nessuno faceva sport. Mi sono avvicinato al ciclismo perché me lo ha suggerito mio papà. A scuola andavo molto male e lui voleva che provassi la carriera sportiva, così ho provato con il calcio, il nuoto e poi l’atletica ma nessuna di queste discipline andava bene per me.

Un giorno ha preso la bici e mi ha detto: “Dai, vieni con me” e ho cominciato a pedalare per le prime volte così, insieme a lui. Nel 2001 mi sono iscritto alla scuola di ciclismo del mio paese. Urrao è un paese è in mezzo alle Ande e per questo c’erano tanti bambini. Ho fatto un allenamento di una settimana e mio zio mi ha prestato la bici per la prima gara della mia vita. C’era una cronometro da fare ma io non sapevo cosa fosse.

Mi hanno detto semplicemente: “Ok, vai da qui a lì più forte che puoi”. Io l’ho fatto e ho battuto tutti gli altri. Così è iniziata la mia esperienza con il ciclismo.

Un mese dopo mio padre ha perso tragicamente la vita. Urrao è un paese che è sempre stato attraversato da guerre e altri conflitti interni e anche la mia famiglia, come molte altre, ne ha pagato le conseguenze.

Questo ha segnato tutte le nostre vite, sono rimasto da solo con mia mamma e mia sorella e da quel momento il ciclismo mi ha dato la forza per occuparmi della mia famiglia. A quattordici anni lavoravo per portare da mangiare a casa e allo stesso tempo andavo a scuola e mi allenavo. Ho fatto quattro anni in Colombia - due da allievo e due junior - e quando avevo diciotto anni mi sono trasferito in Italia.

Ma questa è un’altra storia.